Omelia di Pasqua 2020

12-04-2020

Omelia Pasqua 2020. Teletrasmessa.

Carissimi fratelli e sorelle dell’Arcidiocesi e della città di Acerenza, reverendi fratelli sacerdoti concelebranti: parroco e vicario generale don Domenico, presidente del capitolo e vicario giudiziale don Antonio, don Marcello e don Giuseppe della comunità sacerdotale dell’Episcopio, diacono Antonio. Un grazie ai collaboratori ministranti, operatori telematici, assistenti di sacrestia. Un saluto al signor Sindaco.

Miei cari, durante la Pasqua ci sentiamo uniti con la Chiesa di Terrasanta. Il nostro cuore si porta a Betlemme, a Nazaret, a Gerusalemme, agli altri luoghi biblici, specie quelli legati alla presenza di Gesù e di Maria. Ogni anno preghiamo per i cristiani di Terrasanta, sempre in mezzo a persecuzioni e ristrettezze: quest’anno per loro non abbiamo potuto raccogliere aiuti economici, ma non mancherà il nostro soccorso durante i prossimi mesi: lì tutto si è compiuto, lì tutto è cominciato.

“Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa”, così si esprime la Sequenza di Pasqua. Vero: tutti noi stiamo sperimentando in modo ancora più evidente il conflitto tra la vita e la morte, in questo periodo doloroso di sofferenza mondiale, ma la morte non ha l’ultima parola, l’ultima e definitiva parola è Cristo vivo, risorto, vincitore, e noi con lui.

Lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno” (Atti 10,39), così abbiamo ascoltato da Simon Pietro, dalla lettura degli Atti degli Apostoli. Questo è il kèrygma, l’annuncio della fede cristiana in sintesi fondamentale. Non abbiamo raffinate dottrine filosofiche o complicati teoremi scientifici, noi abbiamo da dire al mondo, con le labbra e con la vita, che Gesù di Nazaret, il Crocifisso, è vivo, cioè è qui, adesso, ora. E non è un mito, una favola, un’illusione umana: “Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione” (Atti 10,41), aggiunge S. Pietro, con una sicurezza e una fermezza che non lascia tempo alle obiezioni: se ci credi hai il perdono e la vita, se non ci credi resti con i tuoi peccati e la tua morte.

Cosa era accaduto quella mattina al Crocifisso morto e sepolto? Cosa aveva saputo e visto Pietro per essere così sicuro di quel che dice? Come avevano potuto mangiare e bere gli Apostoli insieme a un morto risorto?  L’anima mangia e beve? Ci vuole un corpo! Un uomo morto mangia e beve con il suo corpo risorto? Abbiamo ascoltato, nel brano del Vangelo, il racconto dell’apostolo Giovanni che di quei fatti, quella mattina, alba della nostra storia, fu testimone oculare. Anche il giovane apostolo era chiuso nel cenacolo, aveva con sé la Madre di Gesù, che gli era stata affidata da Cristo morente. Attendevano. Possibile che le parole del Signore non si sarebbero avverate? Era finito tutto così, tragicamente? E poi il dubbio tremendo: il Maestro li aveva forse ingannati? I dieci erano là, chiusi nella stanza del cenacolo, con la Madre di Gesù, che però manteneva tanta fiducia nel Figlio e custodiva un dolore pieno di certa speranza. Giuda si era suicidato, Tommaso era assente, alcuni discepoli avevano preso già la via di casa, degli altri non si sapeva nulla. Quella settimana era stata sconvolgente e il cuore era ancora tremante. Del gruppo delle discepole non si sapeva nulla.

Ad un tratto, testimonia S. Giovanni, Maria di Magdala arriva di corsa, entra e annuncia a Pietro e al discepolo amato di essersi recata al mattino presto, al buio, lì al sepolcro di Gesù e di aver trovato la pietra tolta dal sepolcro, senza il corpo del Maestro. Con lei corrono alla tomba Pietro e Giovanni. Mi ha sempre colpito quella corsa del nostro primo mattino. Noi cristiani, che siamo quelli che dicono che è risorto, abbiamo la vocazione congenita a correre, quando ci fermiamo vuol dire che non ci crediamo. Correre per vedere, fare esperienza di lui, stare con lui, ascoltare la sua parola, correre ai sacramenti, correre per testimoniare, correre verso il fratello bisognoso, correre per pentirsi dei peccati, correre per il Cielo, perché il sepolcro di Cristo è vuoto e lui si è fatto vedere e toccare vivo per sempre. La Chiesa è nata di corsa.

I due Apostoli, con la Maddalena, arrivano, vedono e credono: il lenzuolo piegato, le bende riposte, il sudario messo a parte, come qualcuno che si è svegliato dal sonno, dal sonno della morte, e da quella morte, violenta e infamante. Pietro dovette pensare alla sua esperienza con Gesù, quando sulle rive di Galilea lo aveva chiamato, quando aveva assistito ai suoi miracoli e aveva ascoltato le sue parole, quando lo dichiarò Cristo Figlio del Dio vivente, tutte le volte che non l’aveva capito o non lo aveva voluto, quando lo abbandonò e lo rinnegò nell’ora del tradimento, quando angosciato aveva pianto amaramente al canto del gallo. Giovanni aveva avuto il coraggio di restare accanto a Gesù e a Maria; lui no, lui il capo, che era stato costituito roccia su cui Cristo avrebbe edificato la sua Chiesa e le porte degli inferi non avrebbero prevalso su di essa, lui Pietro, che, di fronte alla rivelazione del sangue di Cristo da bere e della sua carne da mangiare, aveva comunque detto “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68), al momento del sacrificio aveva avuto paura e se n’era andato. Lui, Pietro adesso era lì nel sepolcro vuoto, davanti ai lini e alle bende che non avvolgevano più il corpo martoriato. Pietro finalmente apre il cuore alle Scritture e alle parole di Gesù, adesso comincia a vedere e a credere di più. La storia di Pietro, come quella degli altri discepoli, è la nostra storia.

Tornano dagli altri per portare la notizia del sepolcro vuoto, subito dopo giunge di nuovo la Maddalena che annuncia: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). Subito dopo Gesù si manifesta a Pietro e agli altri, si fa vedere e sta con loro. La sera tornano quelli di Emmaus e dicono di averlo visto prima come un viandante e poi di averlo riconosciuto allo spezzare il pane. E’ lui, è vivo, tutto era vero, tutto ormai è vero, non resta altro che partire e correre per il mondo, per i secoli. La morte è morta, la vita è viva perché Gesù di Nazareth, Figlio di Dio è vivo e presente. Ormai tutto cambia: vivere con lui, morire con lui, risorgere con lui, regnare con lui. Ci dice l’apostolo Paolo, nella prima lettera ai Corinzi che abbiamo proclamato: “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato: celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità” (1Cor, 7-8).

Cari fratelli e sorelle dell’arcidiocesi acheruntina, e quanti ci seguono con i mezzi moderni di comunicazione, cari sacerdoti e comunità parrocchiali, care famiglie con i genitori, i giovani figli, gli anziani e i sofferenti, anche questa è stata Visita Pastorale, in un modo diverso, ma spero non meno efficace. Vi saluto con affetto orante, insieme a questi cari sacerdoti concelebranti nella bella basilica cattedrale di Acerenza, nella certezza di vedervi presto per continuare la corsa nell’annuncio di Cristo, che è vivo e vive per noi.

Acclamiamo ancora insieme con l’odierna Sequenza liturgica: “Sì, ne siamo certi, Cristo è davvero risorto. Tu, re vittorioso, abbi pietà di noi”.