Omelia S. Rocco, Tolve 16 agosto 2021
Carissimi fratelli e sorelle, caro parroco don Francesco martoccia e rettore del santuario diocesano di S. Rocco, cari canonici mons. Domenico Venezia e don Nicola Moles, cari sacerdoti concelebranti, illustri autorità civili, militari e culturali della Regione, Provincia e di altri Organismi amministrativi, signor Sindaco e Senatore dott. Pepe. Saluto i consiglieri e collaboratori parrocchiali e gli organismi del santuario diocesano, nonché tutti i collaboratori per la festa del Santo, ridimensionata all’esterno per le restrizioni sanitarie, ma anche perché stiamo comprendendo nuovi aspetti degli usi tradizionali della religiosità popolare cristiana e del Sud in particolare.
Miei cari, vorrei in questa meditazione omiletica interrogare S. Rocco per avere da lui e dal suo esempio dei suggerimenti per il prossimo Sinodo, voluto dal Papa per tutte le diocesi del mondo, insieme al Sinodo dei vescovi per la Chiesa universale, proprio sulla sinodalità come comunione, partecipazione e missione.
I genitori di S. Rocco pregarono a lungo per avere un figlio. Oggi si cerca in tutti modi di evitare la nascita dei figli, anche come conseguenza di matrimoni precari e insicuri quanto a durata. Bisogna allora interrogarsi perché specie in Basilicata il crollo demografico sia pauroso, in una società solo di anziani e in cui i pochi giovani vanno subito via.
A Montpellier la famiglia di S. Rocco, con una buona posizione economica, pensò bene che per il figlio non bastava solo la comodità, ma era urgente educarlo nell’onestà, nella virtù, nello studio, nella fede cristiana, nell’amore verso il prossimo, specie i poveri e i bisognosi. Il Santo interpella le famiglie, la società, le istituzioni e le parrocchie, genitori, insegnanti e sacerdoti, su che cosa stiamo facendo dei figli, se li stiamo educando per una vita adulta sana e coraggiosa, o li stiamo rovinando con il nostro cattivo esempio e le nostre convinzioni sbagliate.
Morti i genitori, il giovane Rocco non si disperò perdendo la fede, né si abbandonò a dilapidare e a gozzovigliare con i beni ereditati, ma meditò a lungo sulla sua vocazione di cristiano laico della sua epoca, diede tutto ai poveri e rispose di sì alla vocazione di essere, come cristiano laico, pellegrino del Signore. È da domandarci e domandare ai nostri giovani figli che intendono fare della loro vita, un dono bello al Signore che li creati o una vita buttata e perduta dietro il niente e la delusione dei capricci? Li prepariamo e si preparano a una vita che, all’età giusta, intraprende il cammino per la professione generosa, il matrimonio vero d’amore indissolubile solo tra uomo e donna, la vita consacrata o il sacerdozio, l’oblazione di sé per gli altri a gloria di Dio?
Tra Francia e Italia, in cammino verso Roma per visitare il Papa e venerare la tomba degli apostoli Pietro e Paolo e degli altri grandi Santi, si imbatté nel flagello del secolo XIV, il virus della peste. Come pellegrino del Vangelo, Rocco non si tirò indietro e, come era costume e organizzazione del tempo, non indietreggiò di fronte al contagio, assistendo, curando e guarendo tantissimi ammalati, con l’azione e la preghiera. Il Santo ci dice: e voi, che avete fatto del piacere e del profitto i vostri idoli, voi che uccidete i bambini prima di nascere, voi che legalizzate la morte degli anziani, dei disabili, dei malati terminali, invece di curarli e amarli, perché poi venite da me invocando aiuto e protezione?
Mi viene da piangere, cari fratelli, a vedere nelle piazze della nostra Diocesi, a volte in giorno di domenica o nelle feste dei Santi, gruppi che chiedono la firma per la legalizzazione dell’eutanasia. La firma per la morte! In una Regione quale la nostra Basilicata già sull’orlo dell’estinzione! La Basilicata non ha bisogno di morte, ma di coraggio, di forza, di vita!
- Rocco, in quel periodo difficile per i cristiani e per i popoli, amò la Chiesa, nell’obbedienza al Papa e ai vescovi delle numerose città che attraversava, senza recriminare, senza criticare: erano la sua vita e le sue azioni che parlavano per convincere anche i credenti e il clero, a credere di più e ad agire di più. Occorre domandarsi allora, nella festa del Santo venerato in ogni angolo della Basilicata, e qui in Tolve nel suo rinomato santuario, occorre domandarsi, sacerdoti e fedeli laici, fino a che punto ci amiamo nella Chiesa, fino a che punto chi ci osserva e ci incontra vede la fede in Cristo oppure al contrario la nostra biasimevole umanità che a parole dice “Signore, Signore”, ma poi non costruisce sulla roccia della sua Parola.
Contagiato egli stesso, non volle essere di peso in quelle circostanze drammatiche, ma si rifugiò quanto più lontano, lui che aveva dato da mangiare gli affamati e dato da bere agli assetati, che aveva vestito gli ignudi e visitato i carcerati, lui che aveva curato gli ammalati e ospitato i forestieri, praticando il brano dell’apostolo Matteo che abbiamo proclamato (cfr Mt 25, 35-36). Non fu abbandonato da Dio, ma fu assistito da persone generose e perfino da un cagnolino affezionato che gli portava il pane ottenuto dalla tavola dei suoi padroni. È scritto nel Vangelo che, se abbiamo una fede grande, ci basta anche una briciola della tavola di Cristo per essere guariti e salvati. Allora ci domanda il Santo se siamo pazienti nelle avversità, se perdoniamo e non ci vendichiamo, se seguiamo i comandamenti della carità, se riceviamo il Pane di vita nell’Eucaristia, se facciamo penitenza nella confessione dei nostri peccati per una sincera conversione, se rispettiamo la nostra persona e accogliamo l’aiuto degli altri. Altrimenti a che serve la nostra festa annuale del celebre Taumaturgo?
Infine, anche se guarito, altre prove lo aspettavano, quali il disprezzo, il sospetto e la lunga prigionia ingiusta e dolorosa, accettate con la massima umiltà e il paziente silenzio, fino alla morte, sapendo che come abbiamo ascoltato dall’apostolo Giovanni: “Noi siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14). Non ci insegna il Santo per il nostro cammino, il Sinodo della Diocesi e di ciascuno, il sacrificio estremo pur di non fare del male, di accettare anche l’umiliazione per amore di Dio che sa quando deve far trionfare alla verità?
Ecco S. Rocco, devoto di Maria SS., che in questi giorni contempliamo Assunta in cielo in anima e corpo, coronata Regina degli angeli e dei santi, devoto di S. Francesco d’Assisi, di cui certo volle imitare la povertà e l’umiltà, pur nella forma del pellegrinaggio cristiano alle fonti della fede. Non ci insegna dunque che camminare, per adulti e giovani, significa avere il Vangelo in tasca, due pani per il sentiero aspro della vita, il sostegno della fede in Cristo crocifisso e risorto, ospite e pellegrino in mezzo a noi, il servizio amorevole a tutti? Mangia e cammina, la meta è sicura.
O S. Rocco, beniamino della nostra Basilicata, sei ricoperto del dolore e delle speranze di intere generazioni, i voti e i tuoi ori sono lacrime e ringraziamento per la tua bontà. Guarda ancora questo popolo e questa Arcidiocesi antica e tenace, indicandoci la ferita della tua gamba: “La tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto”, abbiamo ascoltato dal profeta Isaia (Is 58,8). O Santo protettore dei lucani, insegnaci che per raggiungere le vette si sale, si fatica, si soffre e si spera, si procede senza paura e si confida nella grazia di Cristo, a lui sempre sia gloria e onore.