Omelia, Natale 2021
Miei cari fratelli e sorelle, reverendi sacerdoti canonici e collaboratori festivi in cattedrale, caro diacono, care suore, gentile Coro della cattedrale, spettabile Sindaco ed altre Autorità, cari ministranti: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, scese la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale” (antifona della notte di Natale, cfr Sap 18,14-15). All’antica profezia si dà compimento nel Vangelo: “Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito. Lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,6-7) e “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Con questi tre brani comprendiamo bene il mistero di questa notte, sia come credenti e sia come uomini amati dal Signore.
Ormai nel pieno del cammino sinodale per tutte le Diocesi del mondo, e quindi anche della nostra carissima Arcidiocesi acheruntina, la solennità del Natale del Signore Gesù ci dimostra che per primo Dio si mette in sinodo: fin dalle origini con l’umanità, poi con il suo popolo Israele, poi nel Cristo suo Figlio con i fedeli e nella Chiesa a servizio di tutti gli uomini e le donne della storia. Nella grotta-stalla di Betlemme, Dio si offre Bambino per insegnarci che il Sinodo, e tutta la vita cristiana, parte sempre dall’umiltà, come ha ricordato papa Francesco di recente. Infatti il Sinodo non è solo assemblea di eletti, ma nella nostra comunità diocesana stiamo camminando insieme nelle parrocchie, nelle aggregazioni laicali, nelle famiglie, dove troviamo i componenti di sposi e genitori, ragazzi e giovani, anziani e ammalati, come anche momenti di gioia e di prova. Sono vicino con la preghiera alle numerose famiglie che in Acerenza e in Diocesi hanno avuto difficoltà di salute, di contagio pandemico e di lutti: invoco il Bambino Gesù che asciughi ogni lacrima dai loro volti. Non dimentichiamo tanti che vediamo di rado: stiamo cercando di raggiungere in cammino sinodale anche chi si sente o si è messo ai margini della comunità cristiana, senza dimenticare i poveri e i bisognosi, con cui bisogna fare sinodo permanente, affinché dalla presenza eucaristica e sostanziale di Cristo si passi alla sua presenza anche nei più abbandonati.
Cristo ci rivela: “Io sono venuto nel mondo come luce” (Gv 12,46): è il suggerimento che ho cercato di offrire per l’anno liturgico-pastorale 2021-2022. E’ il sinodo di luce divina. E’ nato il Cristo per portare la vera luce in questo mondo avvolto nell’oscurità, come già predetto da Isaia sulla luce che doveva rifulgere su un popolo vagante nelle tenebre (cfr Is 9,1). Oscurità a tutti i livelli, in cui si cerca di oscurare la stessa identità inalienabile della persona umana. Inoltre Dio si mette in sinodo in una famiglia. Ho voluto ricordare a tutti i cari diocesani l’invito angelico fatto a Giuseppe di Nazaret: “Prendi con te il Bambino e sua Madre” (Mt 2,13), per sottolineare che dalla vocazione di Giuseppe e di Maria dobbiamo apprendere sempre come si fa sinodo nella Chiesa, quindi nelle Diocesi e nelle parrocchie, nelle famiglie e nel cuore dei singoli cristiani. E’ necessario prendere con noi il Bambino Gesù, perché sempre sia un viaggio insieme a lui e insieme tra di noi. La famiglia domestica resta sempre realtà fondamentale, se pure Dio onnipotente per incarnarsi ha scelto e voluto la Famiglia di Nazaret. Miei cari, se il Natale del Signore deve avere il senso proprio per noi dobbiamo partire dalla famiglia dell’uomo e della donna, per i cristiani sacramento del matrimonio: la comunità primordiale che Dio ha creato, e per cui papa Francesco ci richiama a quanto ha insegnato, a sintesi della S. Scrittura e della dottrina della Chiesa, sulla famiglia Amoris laetitia: le mie Indicazioni pastorali riprendono a nostra misura la guida sicura dell’Esortazione Apostolica, a più di cinque anni dalla sua promulgazione, per non dimenticare e per mettere in pratica.
Carissimi fedeli, sacerdoti e laici, la misericordia di Dio si estende sugli umili, coloro che lo temono, cioè coloro che lo amano e credono in lui e in suo Figlio. Nel cantico della Vergine Maria, il Magnificat, si rivela il piano di Dio: i superbi sono dispersi e i potenti rovesciati, i ricchi rimandati senza niente, mentre gli umili sono innalzati e gli affamati saziati, e il braccio del Santo Onnipotente soccorre il suo servo Israele, da Abramo e la sua discendenza per sempre. Per il censimento ordinato dall’imperatore Augusto, Maria, in procinto di partorire, segue lo sposo a Betlemme per registrare la propria famiglia e lì si compie il tempo. Secondo le profezie antiche, specie di Michea, Gesù deve nascere a Betlemme, che è patria di Davide, re amatissimo da Dio e dal popolo, prefigurazione del vero Re Messia, e di cui Giuseppe e Maria sono discendenti. Dall’indagine biblica e archeologica, abbiamo compreso meglio, la consistenza di quell’alloggio e della mangiatoia a Betlemme. Un’ampia stanza di povera casa degli umili, addossata a piccole grotte: si pensa un alloggio popolare o della famiglia di Giuseppe. Erano in molti in quella stanza, e Maria e Giuseppe trovano spazio all’interno, in fondo, verso gli ambienti adiacenti alle animali domestici e riservati al parto delle donne: almeno lì una mangiatoia calda e accogliente per il piccolo divino Bambino. Ecco l’avvento del regno di Dio: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3), annuncerà quel Bimbo una volta adulto, nel suo Vangelo.
Arrivano altri umili: i pastori disprezzati ed emarginati. Hanno avuto visioni di angeli che li hanno annunciati, evangelizzati, avvolti dalla Gloria del Signore, come prima la Gloria avvolgeva il Tempio e l’Arca, adesso i poveri e gli ultimi: una grande gioia per tutti, nella città di Davide, figura del Messia, è nato il Salvatore, il Cristo, il Signore, il Bambino di Maria, che troveranno nella mangiatoia. E subito l’esercito celeste acclama: “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis”, cioè della bene-volenza di Dio.
Sono i biblici anawìm, i poveri di Dio, che si affidano a lui e tutto confidano in lui, come Maria e Giuseppe che hanno al centro della loro vita solo Gesù e in lui tutti, come fratelli e sorelle. Ma perché il Vangelo parla proprio dei pastori? Non si tratta di un elemento agreste e romantico: c’è un messaggio molto più profondo. Secoli addietro, il ragazzo Davide pascolava solitario su quei monti di Betlemme, fu chiamato e unto re dal profeta Samuele, preferito da Dio fra i suoi fratelli più grandi e vigorosi. Dai monti vengono chiamati i pastori disprezzati per adorare il vero Re e Pastore del suo popolo, quel Bambino, nella mangiatoia: “L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1 Sam 16,7), disse Samuele a Iesse, padre del giovinetto Davide, dalla cui radice nascerà il Germoglio nuovo e giusto.
Ci rivolgiamo a Maria, a Lei che custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore. Lo farà per molti anni, con il suo sposo Giuseppe, guardandolo, crescendolo, ascoltandolo, pregandolo, quel suo Figlio, bambino, ragazzo, adolescente, giovane, adulto, crocifisso, risorto: Gesù, il Signore ci salva, come è significato nel suo Nome santissimo.
Gesù Bambino, salvaci, salvaci! In questo momento difficile per la Chiesa, per il mondo, per il cuore di ogni uomo.