Omelia Messa In Coena Domini 2019

18-04-2019

Omelia in Coena Domini 2019

Miei carissimi fratelli e sorelle, carissimi sacerdoti ministri dell’altare del sacrificio e della mensa eucaristica, con questa celebrazione solenne della Cena del Signore noi entriamo nel Triduum sacrum, i tre giorni della nostra salvezza, l’opera di Dio. “Io opero oggi e domani e il terzo giorno avrò finito” (cfr Lc 13, 32-33), aveva annunciato il Signore Gesù. In questa liturgia celebriamo il Signore che presiede con gli apostoli la cena mistica dell’eucaristia, il dono agli apostoli del sacerdozio della nuova alleanza, il comando dell’amore reciproco nel lavarci i piedi gli uni gli altri. “Nella notte in cui veniva tradito”, ci dice l’apostolo Paolo (1Cor 11, 23).

Il brano del libro dell’Esodo, che abbiamo proclamato nella prima lettura, ci ha riportato al tempo in cui il popolo eletto da Dio, i figli di Abramo, vengono liberati dalla dura schiavitù d’Egitto. Il Signore Dio comanda per mezzo di Mosè di sacrificare un agnello per famiglia, di mangiarlo in fretta per la partenza e di aspergere con il suo sangue le porte delle case degli Israeliti. “E’ la pasqua del Signore! In quella notte io passerò…e colpirò ogni primogenito…Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi il flagello dello sterminio” (Es 12, 12-13). Pasqua è una parola ebraica della S. Scrittura che significa proprio “Passaggio”, il passaggio del Signore Dio che salva i figli d’Israele alla vista del sangue dell’agnello sugli stipiti delle porte e li conduce alla liberazione verso la terra promessa ai padri.

Ma quel rito antico aveva soltanto un significato per il suo tempo? Era solo una realtà esaustiva, sufficiente e conclusa? Oppure era un atto fondativo voluto da Dio per una celebrazione da vivere in continuità nel futuro e per commemorare la libertà ottenuta? Lo afferma il testo sacro: “Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come rito perenne” (Es 12,14). Così fece il popolo d’Israele per secoli e secoli, nella Tenda del Convegno e poi nel Tempio di Gerusalemme, nella prosperità e nella persecuzione, nella fedeltà e anche nella lontananza dai comandi del Signore Dio. La Pasqua antica dell’Esodo, celebrata al quattordici del mese di Nisan, non era ancora definitiva, era solo una grandiosa e certa profezia, una preparazione solenne, una fertile radice da cui doveva nascere l’albero fruttuoso.

La schiavitù d’Egitto voleva esprimerne una più grave e letale, quella del peccato e di Satana, iniziata dalla colpa originale. L’antico agnello immolato, maschio e senza difetto, immolato al tramonto, voleva indicare l’Agnello futuro, vera vittima efficace per la salvezza di tutta l’umanità, cioè Cristo, Figlio di Dio, ostia innocente, crocifisso sul far della sera: il cui sangue versato laverà finalmente e totalmente i peccati del mondo. Il sangue asperso sulle antiche porte voleva preparare il sangue nuovo di Cristo, sgorgante dalle sue ferite gloriose che scorrendo dalla croce irrora il mondo e lo lava da ogni bruttura. Il passaggio di Dio, la vera Pasqua, è dunque l’incarnazione del Figlio divino che viene nel mondo per istaurare il regno di misericordia, di salvezza e di pace. “Venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà”, continuamente il Figlio Gesù ci fa dire al Padre. “Liberaci dal male”, quel male antico suscitato in Eden dal serpente insidioso, da cui derivò alla nostra natura malattia, sofferenza e morte. Non un agnello preso fra gli animali poteva liberarci totalmente con lo spargimento di sangue, ma il sacrificio dell’uomo senza macchia e senza peccato, Figlio della Vergine immacolata, mandato dal Cielo e sostenuto dallo Spirito Santo.

Quando seppe che era venuta l’ora stabilita, Cristo nostro Signore ci amo “sino alla fine”, “era venuto da Dio e a Dio ritornava” (Gv 13,3,) afferma l’apostolo S. Giovanni, così con grande mitezza e umiltà si abbassò come uno schiavo, e lavò i piedi agli Apostoli, il gesto dello schiavo nei confronti dei padroni. In questo gesto innanzitutto Gesù fece comprendere il significato della misericordia di Dio, salvatore del suo popolo. Ormai è lui stesso che si mette al servizio in una forma inimmaginabile: si annienta per i suoi figli, si china davanti a loro e chiede l’amore di farsi servire da lui che morirà sulla croce. Si rivela come esempio principale: “Se dunque io, il Maestro e il Signore, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14), ma anche come comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 15,12.17). E rivela anche la causa efficiente. Vuole farci comprendere il significato e la realtà dell’eucaristia, della Cena del Signore, della Messa: senza la sua grazia eucaristica non si potrà mai lavare i piedi agli altri, non si potranno amare gli altri come lui ha amato e ama continuamente.

Nell’ultima cena con i suoi discepoli, prese il pane e offrì il suo Corpo, prese il calice del vino è ci offrì la nuova alleanza nel suo Sangue. “Fate questo in memoria di me”: soltanto con il ministero dei sacerdoti del Nuovo Testamento e con la celebrazione eucaristica, memoriale della morte e risurrezione del Signore, nell’attesa della sua venuta, noi possiamo entrare in comunione con lui, confessare i nostri peccati, mangiando la sua carne e bere il suo sangue eucaristico, noi possiamo avere il coraggio, la forza e la costanza di diventare anche noi corpo e sangue offerti nella carità, senza remore e senza limite, per i fratelli bisognosi e sofferenti. Nel sacrificio di Cristo, preannunziato nel cenacolo, realizzato sul calvario, ripresentato nel sacramento dell’altare, assunto nella comunione, noi possiamo comprendere ancor di più cosa può significa come lui ci ha insegnato a dire “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12), il Padre buono e misericordioso rimette i nostri numerosi ed gravi peccati in virtù del Corpo dato e del Sangue versato dal Figlio sulla croce e nello stesso tempo dona a noi nell’offerta del Figlio quella particolare grazia e quel singolare miracolo di perdonarci tra di noi, di accoglierci nell’umiltà, di superare i conflitti e le divergenze, di spezzare agli ali altri il pane unico e profumato del perdono e della riconciliazione.

Cari fratelli e sorelle, non tralasciamo la partecipazione all’Eucaristia, non abbandoniamo la pratica domenicale e, per i tanti che possono, anche la pratica feriale della S. Messa, ricorriamo spesso al sacramento della Confessione, ascoltiamo la parola di Dio. “Sine Dominico non possumus” dicevano i martiri antichi, scoperti e impediti a celebrare l’Eucaristia, il Dominicum, il Corpo del Dominus Cristo nella dominica dies, la domenica. Ogni volta che, sia nelle basiliche più sontuose o nelle umili cappelle montane, c’è un sacerdote, un altare, il pane e il vino e due o tre riuniti nel suo nome, là c’è il Signore crocifisso risorto, c’è la Chiesa, c’è la carità. Adoriamola nel tabernacolo questa Ostia divina che è Cristo eucaristico oppure nell’esposizione solenne, nelle frequenti visite nelle chiese e nei luoghi sacri, sostiamo ferventi e amorevoli in preghiera e in ascolto davanti a lui. Riceviamolo con somma devozione e adorazione nella comunione eucaristica, portiamolo con la nostra vita fedele ed evangelica agli altri che incontriamo sul nostro cammino. “Io sono il pane vivo disceso dal cielo…fate questo in memoria di me…dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Gv 6,51; Lc 22,19; Mt 6,11).

Signore Gesù, senza di te non possiamo far nulla.