OMELIA PER IL 40° ANNIVERSARIO DI SACERDOZIO DI MONS. FRANCESCO SIRUFO

Acerenza, Solennità di San Canio, 01 settembre 2025
01-09-2025

Sorelle e fratelli, amici e autorità presenti, confratelli Vescovi, presbiteri, religiosi/e

oggi la Chiesa di Acerenza si stringe in un grande abbraccio di gratitudine e di gioia attorno al Vescovo Francesco, nel suo quarantesimo anniversario di sacerdozio. Lo fa in un giorno particolare e solenne, quello del suo patrono, San Canio, un testimone, un annunciatore del Vangelo, un martire. In questo giorno tutta la comunità diocesana si riconosce famiglia, celebrando la sua memoria e la sua speranza, ancorandosi alle sue radici per destare il futuro. Ed è bello quest’oggi unire in un unico “grazie” queste due ricorrenze perché in fondo la vita di un prete non appartiene solo a lui, ma è intrecciata con la storia del popolo di Dio di cui è membro e servo. La nostra presenza proprio per questo non è un semplice gesto di cortesia, ma è segno vivo dell’affetto e della comunione che lega insieme il popolo di Dio: laici, famiglie, consacrati, presbiteri, diaconi, vescovi. Il nostro essere qui dice al Vescovo Francesco: “Non sei solo, la tua vita ha portato frutto in mezzo a noi e noi siamo felici di dire grazie con te e per te”.

Anche io, fratello vescovo, mi unisco a questo coro di gratitudine. Sapete, la Chiesa di Acerenza ha avuto un legame speciale con quella Napoli, perché un mio profetico predecessore, Corrado Ursi, Vescovo di questa Chiesa, divenne poi Pastore della diocesi partenopea. E dentro questa trama, non posso non ricordare con emozione l’amicizia che univa il Vescovo Francesco al Vescovo che mi ha ordinato prete, mons. Antonio Cantisani. Come è bello che i fratelli siano insieme! Come è bello leggere con lo sguardo di Dio le nostre vicende, le nostre connessioni, scoprendo come le nostre storie siano tessute in una rete di fraternità, che lo Spirito ha intrecciato con mani sapienti.

È lo stesso Spirito di cui oggi ci parla Isaia. Lo Spirito che anima la Chiesa, che la riveste di gioia e di libertà, che la rende grembo fecondo e non recinto chiuso. È lo Spirito che scende su ciascuno di noi, perché nessuno resti spettatore muto o presenza inutile, ma ognuno diventi portatore di liberazione, annunciatore di salvezza, strumento di cura e consolazione. È lo Spirito che non permette allo scoraggiamento di schiacciarci, che ci rialza quando il cuore vacilla, che ci radica in quella “speranza che non delude”.

Ed è proprio questo Spirito che Gesù invoca dal Padre nella sua preghiera. Affinché i suoi discepoli pur vivendo nel mondo, sentano di non appartenere alle sue logiche egoistiche; a quelle segnate dalla brama di dominio e di potere. Si, il nostro Signore e Maestro prega per i suoi discepoli, prega per noi affinché siamo custoditi e consacrati nella verità, forti della presenza dello Spirito che libera. Nelle letture di oggi è come se il profeta Isaia e il Vangelo si tendessero la mano: Isaia indica lo Spirito che consola e rinnova, e Gesù mostra il volto concreto di questo dono nello stile dei suoi discepoli, chiamati ad abitare la storia senza esserne prigionieri.

Vedete, questo è il cuore di ogni discepolato ed è proprio per questo il cuore del ministero presbiterale: essere uomini che respirano lo Spirito e che portano al mondo la consolazione di Dio; uomini radicati in Lui e offerti ai fratelli; uomini che camminano dentro la vita con cuore libero, ma con lo sguardo rivolto al cielo.

Sono certo che il Vescovo Francesco ha cercato di vivere questa realtà. Come tutti noi. A volte ci sarà riuscito, a volte no, ma ciò che conta, come un tempo si diceva in teologia morale, è quella opzione fondamentale, quella scelta di fondo di seguire il Signore e di servire i fratelli. Scelta che don Francesco ha fatto in questi quarant’anni per i quali gli diciamo grazie, chiedendogli di continuare ad aiutarci a fare lo stesso, a conservare la sua stessa fedeltà. Non una fedeltà astratta, ma vissuta nelle fatiche e nelle gioie del ministero, nelle notti di preghiera e nelle albe di servizio, nelle solitudini che solo Dio conosce e nelle gioie condivise con il popolo, una fedeltà vissuta in quella trama di luce e di fragilità che caratterizza la vita di ciascuno di noi, la vita di ogni prete, la vita di ogni uomo.

Fratelli presbiteri, permettetemi di rivolgermi a voi… Avvertiamo in noi il privilegio della predilezione. È il privilegio dei poveri, di coloro che sanno di avere bisogno solo di guardare verso il Signore e di fermare lo sguardo su di Lui. Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli! Non è il privilegio dei primi posti nelle sinagoghe, degli spazi di rilievo nelle piazze, del riconoscimento di ruoli e funzioni. È il privilegio dei discepoli che incontrano lo sguardo di Gesù che si volge a loro e dice: «“Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono”» (Lc 10,22-24).

Il Signore vi doni di posare il vostro orecchio sul suo cuore, perché il ritmo del suo sentire diventi il ritmo del vostro intuire e cadenzi i vostri passi di pastori innamorati del gregge! Il cuore di Dio non si arrende mai, è ostinato nell’amore, le sue porte rimangono sempre aperte. Gesù ci ha mostrato e donato il cuore del Padre come un luogo che batte d’amore, che pulsa di compassione e che intende raggiungere ogni uomo, in qualunque situazione si trovi, qualunque sia il percorso della sua esistenza. E così deve essere anche il cuore del prete configurato a Cristo: disposto a lavorare incessantemente, per far giungere a tutti la luce e la consolazione del Vangelo. Ministri col cuore di Cristo, che si fermano, si fanno prossimi, si chinano sulle ferite dei fratelli e li accompagnano, versando su di essi l’olio della consolazione e il vino della speranza. È la strada indicata al nostro ministero sacerdotale dal buon Pastore inviato a cercare chi è perduto, dal buon Samaritano venuto a soccorrere e rialzare l’umanità; è un cuore che cerca, che si muove ostinato nella direzione delle pecore, che va in cerca di quella perduta, senza farsi spaventare dai rischi; senza remore, si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. Gesù ha il cuore del pastore che cerca l’uomo, solo perché rimane continuamente nella ricerca del Padre e della sua volontà.

Non pretendete di essere arrivati, ma rimanete in cammino, come discepoli, sempre, alla sequela del maestro. Prego pe voi, perchè possiate avere, come Cristo, un cuore senza confini, che attende, spera, lotta con il popolo e ne condivide ogni passo con la luce del Vangelo. Vi prego, non presentate risposte preconfezionate, non etichettate le persone, non le classificate dentro uno schema, ma diventate pastori capaci di cogliere le sfumature e le singolarità di ogni volto. Perché al principio di una pastorale ci sono i volti. Vi auguro passione per i volti. Prima leggete il volto, poi parlate. Nessuno sia escluso dal vostro cuore, dalla vostra preghiera e dal vostro sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre, accogliete, includete e, quando dovete correggere, sia sempre per avvicinare; nessuno disprezzate, ma per tutti siate pronti a sporcarvi le mani. Il buon Pastore non conosce i guanti.

Amici miei carissimi, nelle difficoltà che l’evangelizzazione incontra, negli ostacoli che l’azione pastorale conosce, nelle tribolazioni che le vicende dell’esistenza vi procurano, non smettete di guardare a Lui, di affidarvi a Lui. Il Signore, che vi ha chiamato, non deluderà le vostre speranze. Siate sempre mossi dal desiderio e non dalle paure. Siate uomini afferrati dal desiderio di Dio. Lottate contro le abitudini vuote. La lotta del cuore rimane sino alla fine, perché Dio non sia mai un dovere ma sempre un desiderio.

Brillino i vostri occhi ogni qualvolta sulle vostre labbra ci sarà Dio e la sua Parola d’amore! Maria, donna del si senza riserve, vi aiuti a credere con fiducia che le grandi cose che Dio ha operato in Lei, può realizzarle anche in voi, se con prontezza e generosità, gli offrite il vostro eccomi! Disegni con delicatezza di Madre, sulle vostre labbra un “si” quotidiano, feriale, ma generoso e solenne, anche se detto a denti stretti o tra le lacrime. Vigili sulla vostra lampada, perché resti sempre accesa nella speranza.

Fratelli e sorelle, sono un figlio del Sud, vengo dalla Calabria, ho il dono e la responsabilità di servire come vescovo la Chiesa di Napoli, e oggi mi ritrovo con voi a condividere la mensa eucaristica in questa terra benedetta della Basilicata. Perciò permettetemi di invitarvi, in questo evento di festa, a non dimenticare le sfide che vivono le nostre Chiese del Sud. Vedete, il meridione non è solo questione di geografia: il Sud non è un punto sulla mappa, ma uno spazio dell’anima, una condizione esistenziale. È il luogo dove si concentra la memoria e la fatica, dove il cuore della gente custodisce una speranza fragile ma tenace. È dal Sud che occorre sempre ripartire, perché da lì nasce la vita nuova, da lì germogliano i sogni di giustizia e di liberazione che il mondo intero attende.

La nostra è una terra generosa, feconda di fede, ma segnata da contraddizioni profonde: povertà antiche e nuove, opportunità che fuggono, giovani che cercano altrove il loro futuro. Eppure, proprio in questa fragilità il Signore chiama la Chiesa a compiere il suo miracolo quotidiano: non rassegnarsi, non lasciarsi rubare la speranza, custodire la dignità di ogni persona, costruire comunità che generano vita e non indifferenza. Personalmente sono convinto che la Chiesa del Sud ha una speciale chiamata: non deve smarrirla, non può permettersi di disperdere la sua eredità di fede e di cuore. È chiamata a servire il Vangelo della vita e della pace, a lottare, con creatività e tenacia, per il bene della gente, per la liberazione integrale dell’uomo e della comunità, perché ogni fragilità trovi ascolto e ogni sofferenza trovi consolazione. È chiamata ad essere laboratorio di speranza, culla gestante di fede autentica e di speranza incrollabile.

Per questo non possiamo accontentarci di gestire il presente o di lamentare il passato: dobbiamo accogliere la vocazione del Sud come missione, come responsabilità di cuore e di coscienza. Dobbiamo essere Chiesa che cammina tra la gente, vicina alle famiglie, ai giovani, agli ultimi; capace di trasformare le ferite in opportunità, le difficoltà in forza, la memoria in seme di futuro. Solo così saremo davvero fedeli allo Spirito: alimentando quella fiamma che illumina le notti più scure, custodendo quel canto che rompe il silenzio della rassegnazione, quel cuore che batte per ciascuno, senza mai smettere di sperare e lavorare per la causa del Regno!

Caro Vescovo Francesco, figlio del Sud, il tuo cammino di prete e il tuo servizio come vescovo in questa terra sono un dono grande per questa Chiesa e per la Chiesa intera. Non sei stato un funzionario del sacro, ma un padre, un fratello, un pastore che ha camminato accanto al popolo, condividendo le sue fatiche e illuminando, con la luce del Vangelo, i suoi passi. Oggi ti diciamo grazie, non solo per ciò che hai fatto, ma soprattutto per quello che sei: un uomo che ha creduto nella fedeltà di Dio e ha reso trasparente, attraverso la vita donata, la tenerezza del Padre. Affidiamo il tuo ministero e la tua amata Chiesa di Acerenza a San Canio. Lui, che ha testimoniato con il martirio la fedeltà a Cristo, ci ricordi che la vera forza non è nelle armi del mondo, ma nella mitezza del Vangelo. A lui consegniamo la tua vita, caro Vescovo Francesco, e la vita della tua Chiesa, la vita della tua gente.

E insieme a te, affidiamo a San Canio tutto il Sud: il nostro Sud, il Sud del mondo, ogni terra e ogni popolo segnato dalla violenza e dalla guerra, ogni cuore che cerca giustizia, che invoca pace e semina il bene. In questo frangente della storia, allargando il cuore a ogni meridiano e parallelo del mondo, gli consegniamo le nostre speranze: che presto si spenga l’odio, che cessino i fratricidi, che venga fermata ogni violenza; che impariamo a rifiutare l’ingiustizia, a coltivare la verità, a vivere secondo lo Spirito del Vangelo.

Che il vescovo e martire Canio, ci aiuti tutti a fidarci del Signore, lavorando con costanza e audacia nella vigna del Regno, affrettando il tempo in cui le lance diverranno falci, le pistole libri, i droni giochi innocenti; il tempo in cui il lupo abiterà insieme all’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto e il vitello e il giovane leone pascoleranno insieme; il tempo in cui nessun bambino dovrà temere un rumore inatteso nel cielo e dove ogni creatura vivrà nella pace e nella giustizia.

Amen.

 

 

+ Mons. Domenico Battaglia

Arcivescovo di Napoli