Omelia S. Canio, 1° settembre 2020

01-09-2020

Omelia S. Canio, 1° settembre 2020

Su Deut 19,8-9; Gc 1,2-4.12; Mt 9,35-38.

Cari fratelli e sorelle, che vi affidate all’intercessione del nostro patrono cittadino e diocesano S. Canio vescovo e martire, cari fratelli sacerdoti, che siete in Acerenza per la convocazione del clero sia per discernere sul biennio del munus sanctificandi, sia per iniziare l’anno pastorale diocesano sul munus regendi. Tra i concelebranti porgo un saluto al vicario generale e parroco della cattedrale don Domenico e al vicario giudiziale e presidente del capitolo don Antonio insieme ai rev.di canonici. Miei cari tutti, sia chierici che laici, vi ringrazio per l’accorata preghiera per le mie date in cui si è manifestata per me la benevolenza divina, ossia gli anniversari di ordinazione diaconale, presbiterale, episcopale e di immissione nel servizio in Arcidiocesi. Saluto lo stimato sindaco dott. Scattone, a cui esprimo gratitudine per l’operato profuso durante il mandato.

Siamo ancora nel pieno della Visita Pastorale, completata nell’Unità pastorale zonale della Bradanica e della Basentana, da completare in parte nella zona dell’Alvo e nell’Acheruntina, da compiere totalmente nella Camastra: la restrizione sanitaria di più mesi ha bloccato o rallentato questa esperienza, che per me sta diventando un’esperienza di grande gioia sacerdotale e pastorale, nonché di esercizio del pensiero teologico e spirituale. Le letture bibliche selezionate per questa solennità mi suggeriscono molto per leggere secondo Dio la vita diocesana, del clero e mia di cristiano e di vescovo.

Nella prima lettura dal libro del Deuteronomio abbiamo ascoltato che Dio prescelse una tribù precisa nel suo popolo per compiere tre atti fondamentali: portare l’Arca dell’Alleanza, stare davanti al Signore per servirlo, benedire nel suo Nome. Cari fratelli sacerdoti della Nuova Alleanza, nella festa solenne del sacerdote vescovo Canio, non è forse anche la nostra vocazione e missione, avvalorata in sommo grado dal sacrificio di Cristo sulla croce. Sto vedendo i vostri impegni e la vostra dedizione nelle parrocchie, ma il brano biblico per noi nuovi leviti ci fa comprendere che prima di tutto noi dobbiamo portare l’arca dell’alleanza del Signore, cioè l’amore alla celebrazione della liturgia che nell’Eucaristia ha il culmine e la fonte, nell’arca del Signore sta la grazia dei sacramenti da celebrare con un estasi che non è nostra capacità, ma che si apre all’azione dello Spirito Santo, l’arca del Signore è nelle nostre chiese parrocchiali dove la celebrazione manifesta il livello della nostra fede e del popolo cristiano, che del resto si accorge subito del nostro livello di  fedeltà al Cristo e alla Chiesa. Portare l’arca significa anche la prova, il peso della responsabilità, la consapevolezza che non porto me stesso e le mie idee, ma porto, porgo, testimonio la parola di Dio.

Tutto questo può avvenire se, come dice la prima lettura, io sto davanti a Dio, cioè la vita della preghiera, dell’adorazione, del silenzio, delle fedeltà alla liturgia delle ore e alla celebrazione eucaristica, se quando celebro faccio trasparire dal e nel rito una vita dedicata al Signore. Per servire e benedire il suo popolo, la Scrittura sottolinea l’impegno di evangelizzazione, di annuncio, di carità e servizio per cui se è stati chiamati. “Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli…il Signore è la sua eredità” (Deut 10,9). Cari fratelli sacerdoti, nel ricordo del sacerdote vescovo Canio, che lasciò tutto per seguire il Signore nell’esilio, nel martirio, nella terra straniera, anche noi comprendiamo che la nostra unica eredità e parte è solo il Signore. Attaccarsi a ruoli istituzionali, situazioni pastorali o parrocchiali, persone singole o gruppi ecclesiali, significa non avere l’eredità del Signore, ma questo non è dato al levita, cioè al sacerdote di oggi e di ogni tempo: egli è costituito per manifestare a tutti che il suo tutto è Dio.

Nella seconda lettura, dalla lettera di S. Giacomo apostolo, ricordando le prove del vescovo martire S. Canio, abbiamo ascoltato che proprio le difficoltà e le sofferenze del cristiano, e del sacerdote in particolare, sono da considerare gioia piena, la famosa perfetta letizia, nel senso che si partecipa alle sofferenze del Signore per partecipare anche alla sua gloria. La fede provata produce la pazienza. Cari fratelli, cari sacerdoti, sappiamo benissimo che la fede vera e autentica, immersa nella prova e nell’avversità, si fortifica a tal punto da farci diventare miti e vigorosi. La fede dei martiri era tanto paziente e tanto forte da far stupire imperatori, prefetti e carnefici. Si stupì tutto l’impero romano, con tutta la sua ferocia, che infine si dichiarò vinto da tanta verità e da tanta carità. Nella Visita ho potuto sperimentare la vostra prova e quella di centinaia di ammalati e impediti, di giovani incatenati da falsità che il mondo impone, da adulti angosciati per la famiglia e per la professione che spesso è precaria o non c’è, ma proprio in questa situazione dolorosa la parola di Dio ci dice che è proprio la pazienza in Cristo che dona perfezione, integrità e non ci fa mancare di nulla (cfr Gc 1,2-4). Un nuovo orizzonte accolto con gioia e pazienza non ci toglierà nulla, una nuova missione ci renderà ancora più gioiosi di seguire solo Cristo, una nuova collaborazione con altri fratelli presbiteri ci dona più coraggio e ardimento nell’apostolato. Può essere un martirio, ossia una testimonianza, però fa nascere una nuova giovinezza dello spirito e un rinnovamento della vocazione, per dirla con la Chiesa che è in Italia fa nascere il lievito di fraternità.

Cari cristiani laici, cari presbiteri e diaconi, come ci avverte la Lettera di Giacomo, c’è la tentazione, che Dio Padre induce per darci la possibilità di progredire nella strada del Vangelo, per liberarci dal male, per donarci la forza di superarla, per offrirci la corona della vita, che ha promesso a coloro che lo amano. Quindi se non avessimo tentazione non potremmo combattere per conquistare la corona della vita, ossia Cristo stesso, non potremmo dimostrare per sua grazia che noi lo amiamo. Nella vita di ogni giorno noi sperimentiamo continuamente la prova a cui Dio ci espone e non ci abbandona, permette i momenti difficili e insidiosi per mostrare il suo amore infinito e la sua superiore sapienza. Potremmo essere tentati di non fare più nulla, di lasciarci all’onda delle mode terrene, di farci conquistare dal danaro e dal piacere, dall’ambizione e dalla seduzione, di disobbedire a Dio e alla Chiesa, di non pregare più e svolgendo riti da mestieranti, di non seguirlo più. Anche i martiri nella lunga e umiliante prigionia, prima di essere uccisi, furono tentati e messi alla prova, tanti rinunciarono e tradirono, perché pensavano che fosse opera loro la resistenza, gli altri, che nessuno poté contare, pensavano e credevano che la perseveranza era opera del Signore e affrontarono ogni tipo di martirio.

Il brano del vangelo di S. Matteo ci fa pensare al vescovo S. Canio come pastore missionario dalla terra d’Africa all’Italia, sia in Campania e perfino, dopo la morte, in Lucania, con le sue sacre reliquie. “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando, annunciando il vangelo e guarendo ogni sorta di malattia.” (Mt 9,35). Riguardàti le esigenze personali e i diritti canonici, se non diventiamo più aperti alla missione, in ogni modalità essa si presenti, noi ci distanzieremo sempre più da Gesù che “percorreva”, e isolandoci nel nostro piccolo insormontabile, noi non vinceremo. Anzi saremo travolti da altri cristiani che invece accettano di percorrere. Questa chiusura nelle nostre abitudini, certezze, usanze, progetti personali, ci fa dimenticare la compassione di Gesù per la folla sbandata e senza pastore. Non è solo il paesino o la parrocchietta, non è solo magari la parrocchia grande ma suddivisa, è la messe del Signore che biondeggia e non ci sono operai disposti a lavorarvi numerosi e a squadra, sotto la direzione del Padrone che è lui. Accontentarsi della propria partita di grano da mietere sotto il sole cocente, senza compagnia di lavoro, tra sterpi, serpenti e stoppie pungenti, non produce il frutto sperato, a volte non produce niente più.

Fratelli preti, diacono permanente Nino, prossimo diacono ad sacerdotium Alberto, che emetti pubblicamente la tua professione di fede e la dichiarazione di accettazione del celibato ecclesiastico, care suore, cari seminaristi, cristiani laici acheruntini e collaboratori rappresentanti di parrocchie, ricordiamolo ormai alle soglie dell’anno pastorale diocesano 2020-2021, ancora minacciato dalle epidemie, contro cui invochiamo protezione dalla Vergine Maria, dal taumaturgo S. Canio e dai due diaconi martiri Mariano e Laviero, ricordiamo le parole di papa Benedetto XVI e di papa Francesco: chi ha fede non è mai solo, quindi chi è solo, e ci vuole restare, non ha fede.